LABIRINTO
Più per svago che per lavoro, ho visitato un noto labirinto italiano (Labirinto della Masone) che mi apre l’opportunità di questa lieve riflessione.
Si potrebbe scrivere un libro sull’argomento, che si sommerebbe alle centinaia esistenti, probabilmente senza aggiungere nulla di nuovo.
Non essendo questa la sede per tanta vanità, tento un approccio più contenuto, partendo da un cartello posto all’interno dei sui meandri, che suggeriva il parallelismo tra il labirinto e la città.
Spunto interessante per molti, ma probabilmente aduso per chi ha dovuto sostenere uno o due esami di urbanistica.
Anche perché, sebbene il dedalo di strade e interconnessioni e POI (Point Of Interest) che compongono una città sia una frase autoesplicante e sarà capitato un po’ a tutti talvolta d’essercisi persi, quella del labirinto non pare essere una metafora appropriata: la città moderna è dotata, per definizione, di una molteplicità di varchi d’accesso e di uscita. Fisicamente, entrare in città è piuttosto semplice – traffico e ZTL permettendo – così come lo è uscirne.
E’ quindi su altri piani che dobbiamo cercare la connessione tra lo spazio urbano e quello labirintico.
Il primo che mi viene in mente è senza dubbio quello sociale: si entra in città per cercare di arrivare ad una destinazione ambita, una meta, una realizzazione. Per farlo occorre trovare il bandolo della matassa (professionale, burocratico, familiare, civico,…) ed affrontare sfide e minotauri di svariate specie. Spesso però questa destinazione è un permanere nel labirinto stesso e non dà vie di uscita!
Legato a questo tentativo di trovare la propria strada capita spesso, a livello psicologico, di provare il senso di smarrimento che coglie chi teme di essersi perso o di non arrivare a nulla, di faticare inutilmente. Persi a tal punto da chiedersi perfino se l’unica vera uscita da questo labirinto urbano sarebbe stato proprio non entrarci.
Eppure chi ci sguazza in questo pelago, chi riesce a stare sulla cresta dell’onda, è una dura testimonianza per il popolo sprofondato nell’abisso. Cosa separa dunque chi cerca da chi trova?
Credo che – al di là di fluttuazioni stocastiche – il discriminatore sia l’informazione.
In tutti i suoi molteplici significati: da quello più comune (chi ha le informazioni giuste, più aggiornate, più accurate ha più chance rispetto a chi non le ha), a quello più rigorosamente scientifico e quantificatore, dove i concetti di canale, di rumore, di entropia, di perdita di segnale, ecc. assumono rilievo effettuale. Per finire, anche il risvolto architettonico dell’etimologia della parola – in-formare, dare forma – diventa chiaro e pertinente. Chi riesce a capire la forma del labirinto ha un vantaggio enorme; chi riproduce come forma mentis la forma del mondo in cui vive ha un vantaggio competitivo. Chi riesce poi a fare l’opposto, a plasmare cioè il proprio mondo, dandogli la forma desiderata è un vero vincitore.
Questo termine è qui adottato senza un giudizio di valore, ma solo come mera constatazione. Chi, tra le rovine di una catastrofe, s’aggira alacremente per salvare i superstiti è pari allo sciacallo in cerca di bottino. Entrambi vincitori, non vagano smarriti tra le macerie.
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