Alcune considerazioni in merito alla professione di Architetto

Tra le inarrivabili archistar da una parte e i telegenici guru di alcune trasmissioni televisive dall’altra, la maggior parte degli architetti vive in una realtà un po’ diversa, dove alla crisi del settore si accompagna da tempo una crisi di identità lungi dall’esser risolta.
In un passato dove ognuno dei “pochi” architetti sul mercato si sentiva capace di affrontare qualsiasi lavoro (dalla progettazione strutturale al design del comodino), i molti (troppi?) architetti di oggi affrontano lo stesso tutti questi ambiti, solo che ognuno si è specializzato in uno o due settori, divagando sul tema semmai più per necessità che per vocazione.
Insomma, l’architetta/o è ancora una figura poliforme, multidisciplinare, vagamente onnifacente… E questa onnipotenza, invece di avvicinare l’architetto alla divinità, lo confonde, quando va bene; degradandolo nel delirio per antonomasia nei casi peggiori.
La ridefinizione, prima ancora che del ruolo, del “termine ontologico” di architetto, del suo senso e del suo significato, non può che essere un processo lungo nel tempo e vasto nella cultura.
In attesa che l’istruzione italiana faccia la sua importante parte, almeno per mettere ordine a ruoli e compiti, forse è proprio da ogni architetta/o che può venire un contributo, per quanto minuto e farraginoso a questo processo di ri-identificazione.
Le riflessioni qui seguenti, per quanto possano sembrare irrelate e off topic, nascono proprio con l’intento di esplicitare questo contributo che ciascuno di noi, implicitamente, fornisce nel corso del proprio stesso operato.

 

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